Monthly Archives:Febbraio 2016

IN ITALIA TROPPE TESTE MA POCHE OPPORTUNITÀ: I DATI DELL’INDICE SUI TALENTI 2016

18 Feb 16
AVF Staff
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In base alla recente indagine del “Global Talent Competitiveness Index (GTCI) 2015-16” tra i primi paesi con le migliori performance in termini di competitività dei talenti troviamo la Svizzera, Singapore e il Lussemburgo. Seguono nella classifica dei primi dieci Stati Uniti, Danimarca, Svezia, Regno Unito, Norvegia, Canada, e Finlandia.

Questi paesi hanno dimostrato un’ottima apertura in termini di mobilità dei talenti con una percentuale di nati  all’estero del 43% per Singapore e del 25% per Svizzera e Lussemburgo.

Nella top 20 del gruppo dei paesi virtuosi si registra, rispetto al 2014, oltre all’ingresso in posizione finale della Repubblica Ceca, una maggiore circolazione dei talenti per la Nuova Zelanda ed un lieve calo delle performance per Canada ed Irlanda. L’Italia si colloca invece 40esima all’interno del gruppo dei paesi dalle più modeste performance e 26esima tra i paesi Europei; dimostrandosi in linea con quei paesi che esprimono talenti ma che non creano circoli virtuosi per attrarre quei profili altamente qualificati che potrebbero investire sul territorio, creare startup, lavorare nella ricerca e fertilizzare il tessuto produttivo lavorando in quelle aziende che ne fanno richiesta.

Tuttavia analizzando i criteri alla base di questa classifica emergono dati interessanti per il nostro paese.

In particolare viene fuori che il nostro paese risulta tra quelli che generano potenziali talenti attraverso  una buona formazione dei giovani a partire dalla scuola primaria fino all’università (24esimi su 109); e che inoltre il sistema dell’Education risulta essere in una fase di evoluzione più dinamica rispetto agli altri paesi.

Quello che tuttavia ostacola la circolazione dei talenti, in entrata  e in uscita nel nostro Paese, è la scarsissima mobilità sociale  (90esimi su 109); l’ascensore sociale è fermo e non si investe nei talenti dopo la laurea.

Per quanto riguarda poi  l’inclusione sociale rimaniamo a metà classifica; come pure per quanto riguarda la  tolleranza degli immigrati e delle minorante etniche. Manteniamo posizioni dignitose sull’uso dei social network (37 esimi su 109) e dei network professionali (27 esimi su 109). Ma ciò che ci caratterizza come paese davvero poco attrattivo, sia in entrata che in uscita, è il livello della cosiddetta Tertiary education (71 esimi su 109), ovvero delle specializzazioni universitarie (master, dottorati ecc.). Infine, ricopriamo posizioni non brillanti  per quanto riguarda la forza lavoro specializzata con competenze di alto livello (66esimi su 109); non possediamo abbastanza high skilled, quelle che dovremmo formare dopo la laurea; il mercato del lavoro è chiuso rispetto alla mobilità geografica (non incrementa lo spostamento di lavoratori esperti e dirigenti da e verso l’estero). Ricopriamo poi le ultime posizioni in termini di sistema di tassazione (107esimi su 109).

A parere di analisti internazionali, tuttavia, la formazione universitaria superiore non è solo un potente motore per la costruzione delle basi della crescita sociale ed economica di un paese come pure della sua competitività; ma è anche uno strumento attraverso il quale, grazie alle conoscenze, abilità e competenze avanzate sviluppate e alla ricerca scientifica di base e applicata svolta, si fa funzionare al meglio un intero sistema. Il ruolo dei poli di ricerca e dei cluster territoriali, facendo interagire fra di loro istituzioni, imprese, mondo della ricerca e della formazione, diventa dunque sempre più importante al fine di rafforzare quel collegamento tra il territorio e i luoghi del sapere (formali e informali)  che, sebbene in Italia sia stato già avviato,  dobbiamo continuare a sviluppare per metterci in pari almeno con paesi a noi vicini quali Francia, Germania e Spagna, che sono molto forti nell’integrazione tra formazione e territorio.

Altra questione di rilievo affrontata dagli analisti internazionali è la necessità di creare un collegamento tra mondo della formazione e mercato lavoro attraverso il riconoscimento di una rinnovata importanza dell’apprendimento professionale e della sua integrazione nell’insegnamento a partire dalla scuola superiore. A tale proposito la Svizzera, che è il paese al primo posto di quest’indice, ci mostra come la questione dell’occupabilità viene affrontata dalla medesima molto presto e a scuola. Dai 15 anni in poi, più del 70% degli allievi sceglie la strada dell’apprendimento professionale concentrandosi sull’esperienza professionale pratica; e che, inoltre, all’interno del Governo svizzero, la metà dei ministri proviene  dal mondo professionale.

Per essere competitivi nel futuro nel mercato dei talenti è dunque necessario investire nella formazione professionale e nell’occupabilità dei propri giovani con maggior incisività e l’alternanza scuola lavoro, introdotta di recente dalla legge italiana, ne rappresenta un buon inizio.

StartupItalia!, febbraio 2016

RAPPORTO Global Talent Competitiveness Index (GTCI) 2015-16

 

PERCHÉ LO SMART WORKING NON PUÒ ESSERE SOLO “LAVORARE DA CASA”

17 Feb 16
AVF Staff
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Lo Smart Working è un fenomeno che, raccogliendo l’adesione a numerose iniziative di un numero sempre maggiore di imprese e Pubbliche Amministrazioni, ha raggiunto in Italia livelli di diffusione e attenzione, non solo mediatica, difficilmente sperabili fin a qualche anno fa.

Lo dimostra l’attenzione crescente del Governo che ha proposto un DDL collegato alla legge di stabilità in questi giorni in corso di approvazione; un decreto che, pur non indicando incentivi specifici e mantenendo qualche prudente riferimento a limiti e vincoli nella gestione degli orari di lavori, ha l’indubbio merito di fare chiarezza sugli aspetti giuslavoristi e di sicurezza sul lavoro che fino ad oggi potevano creare dubbi e alibi da parte delle aziende; inoltre,  venendo incontro agli obiettivi di introduzione di meccanismi di flessibilità nel pubblico impiego, estende l’applicabilità dello Smart Working nel mondo delle Pubbliche Amministrazioni.

Tuttavia le varie iniziative e sperimentazioni, portate avanti anche dalle aziende, devono spostare l’enfasi da uno Smart Working inteso semplicemente come sinonimo di “lavorare da casa” ad una “nuova filosofia manageriale” che, permeando l’organizzazione, dia alle persone autonomia nel decidere dove, quando e con quali strumenti lavorare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati; che pensi a nuovi spazi di lavoro negli uffici, gestendo in modo più flessibile ed intelligente gli orari, usando le tecnologie per rendere la collaborazione più veloce ed economica e, soprattutto, cambiando il modo in cui capi e collaboratori condividono e perseguono obiettivi di miglioramento della produttività e del benessere organizzativo. In altre parole occorre andare oltre procedendo all’individuazione di criteri ed indicatori che non si limitino al semplice numero di giorni di homeworking concessi e alle percentuali di lavoratori a cui questi sono accordati ma che invece colgano, attraverso  l’emergere di storie di successo, di cambiamenti innescati nei modelli organizzativi (in vista della sfida legata allo Smart Manufacturing) e del loro impatto sul business,  l’innovazione culturale e organizzativa relativa all’insieme delle specifiche leve progettuali messe in atto.

Dopo la prima fase di sperimentazione  bisognerebbe dunque promuovere veri e propri laboratori di innovazione organizzativa interna in cui coinvolgere le Line of Business e i Manager più propositivi in un percorso consapevole e condiviso di innovazione dei processi e delle modalità di organizzazione del lavoro.

EconomyUp , Febbraio 2016

INCONTRO CAREER LAB – ALI S.p.A

16 Feb 16
AVF Staff
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25 FEBBRAIO 2016 ORE 14.30 

C/O CANTIERE NOVOLI LIBRERIE UNIVERSITARIE, VIA delle PANDETTE 14

Rivolto a studenti, laureandi e laureati da non più di tre anni in:

INGEGNERIA MECCANICA, INGEGNERIA INFORMATICA, INFORMATICA

CHIMICA , GIURISPRUDENZA ED ECONOMIA

L’incontro mira a:

  1. Presentare la loro realtà professionale e discutere sugli aspetti relativi al reclutamento e all’occupazione
  2. Effettuare colloqui per la selezione di risorse umane da inserire in aziende che operano sul territorio toscano

 

DETTAGLI EVENTO Career Lab_Ali Spa 

PROFILI RICERCATI

 Info@favard.it

 

I «NATIVI DIGITALI» SONO ANCORA LONTANI DAL SAPER FARE IMPRESA

15 Feb 16
AVF Staff
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Da una ricerca svolta tra novembre e gennaio scorsi, su oltre 2.200 studenti rappresentativi dell’intera popolazione studentesca universitaria italiana (1,6 milioni), e condotta da University2Business (una società del Gruppo Digital360 nata dall’esperienza di un gruppo di docenti universitari e professionisti del mondo digitale), emerge una fotografia delle capacità digitali e della sensibilità imprenditoriale degli studenti priva di evidenti grandi differenze tra le facoltà, fatta eccezione per gli informatici, più preparati per esempio sulle definizioni di “cloud” e “big data”.

L’analisi, che si è focalizzata su quattro aree: le conoscenze teoriche sull’innovazione digitale applicata al business, l’esperienza concreta nel mondo digitale, le competenze di sviluppo del software e l’approccio imprenditoriale (teorico e pragmatico), mette in evidenza che gli attuali studenti universitari, i primi nativi digitali, sono soliti smanettare sui computer e chattare sui social, ma se si parla di cosa significhi “cloud” in informatica, vanno in crisi: lo sanno solo il 12% di loro. Circa uno su cinque ha fatto qualcosa di progettuale su Internet, anche se nella maggior parte dei casi la professionalità applicata è molto bassa e i risultati sono minimi: il 13% degli studenti dichiara di avere un proprio blog o sito, ma solo uno su due aggiorna i contenuti almeno una volta alla settimana; Il 17% degli studenti ha un proprio canale YouTube; il 23% dichiara di gestire una pagina Facebook oltre a quella del proprio profilo personale; il 36% ha usato almeno una volta Internet per vendere qualcosa di proprio.

Termini come “fatturazione elettronica” o “big data” sono abbastanza oscuri a tre studenti su quattro; va meglio con “mobile advertising”; il 38% sa tradurre come messaggistica pubblicitaria su tablet o telefonini;

In definitiva solo una parte degli studenti ha capito bene l’importanza di saper utilizzare in modo proattivo e progettuale le tecnologie digitali e di avere una propensione imprenditoriale. Tra questi, non mancano studenti che stanno portando avanti concreti progetti digitali o vere e proprie start up. Il 10% degli studenti dichiara di saper sviluppare software, il 20% di stare imparando; di questi ultimi, quasi la metà lo fa autonomamente e non all’università. Economisti e informatici alzano la media, come pure i maschi rispetto alle femmine, ma il desiderio di “fare impresa” riguarda comunque oltre uno studente su tre. Il problema è passare dal dire al fare.

Il Sole 24Ore, febbraio 2016

RAPPORTO University2Business

LA SHARING ECONOMY, ORA ANCHE ON DEMAND, VALE L’1% DEL PIL ED È QUI PER RESTARE

15 Feb 16
AVF Staff
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Secondo un studio effettuato dagli esperti di Crédit Suisse “Sharing economy. Nuove opportunità, nuovi interrogativi” il contributo al Pil da parte della sharing economy resta in una forchetta tra lo 0,25 e l’1 %; per l’Italia sarebbe come dire fra i 4 e i 16 miliardi di euro, un contributo non rilevante che in percentuale è minimo se rapportato al rumore che questa nuova economia sta producendo in termini di attenzione dei media.

C’è comunque da sottolineare che differenti sono le tipologie di apporti alla Sharing economy o alla demand economy, ovvero una nuova economia che da alcuni viene vista prendere vita grazie al ruolo centrale delle persone, da altri invece in ragione delle  peer-to-peer  asset lending platforms.  Ad esempio, un conto è misurare la commissione di Blablacar (20 milioni di iscritti in 19 Paesi) o della star del settore Uber (51 miliardi di valore attribuito sulla base dei finanziamenti sin qui ricevuti) per un passaggio in auto. Un altro conto è calcolare il valore aggiunto di una piattaforma come freelancer.com che incrocia domanda e offerta di lavoro sulla base di collaborazioni mirate per progetti. Ancora altro è inquadrare il guadagno di un host di Airbnb quando affitta il proprio appartamento o quello di uno chef fatto in casa di Gnammo. Altro ancora il caso di un rimborso spese per l’offerta di un divano letto o quello di un “lavoretto” fra privati come avviene su  Tabbid  (la versione italiana di  Task RabbitAskfortask, o dell’australiana AirTasker) o su Helpling. Casi quest’ultimi nei quali il valore dello scambio non entra nel calcolo del Pil.

Secondo gli esperti della banca elvetica Crédit Suisse più le attività economiche del mondo  on demand o sharing  guadagnano terreno (in particolare nelle aree dei servizi dai viaggi alle imprese di pulizie, dei trasporti, dell’ospitalità e del food, meno in quelle dei servizi finanziari e assicurativi) più urgente diventa aggiornare il metodo di calcolo della produzione di ricchezza di un Paese.

Per adesso la sharing economy non rappresenta una “forza distruttrice” dell’economia tradizionale, in quanto al momento siamo di fronte a nuove opportunità con una  creazione di valore  ancora limitata a dispetto degli investimenti; almeno per i prossimi cinque anni la sharing economy impatterà in maniera limitata sugli  incumbent  ovvero sulle società e sui gruppi  ex monopolisti e oligopolisti che occupano ancora una posizione dominante; le ricadute saranno poi differenti a seconda dei settori: già oggi si cominciano ad intravedere gli effetti tutt’altro che negativi per un’industria che ha subìto profondamente l’avvento di internet, ovvero quella discografica; più sensibili  saranno, invece, gli effetti sostitutivi sui costruttori di automobili.

In altri termini, secondo Crédit Suisse, la sharing economy pone una serie di interrogativi: mentre i benefici per gli utenti sono enormi, si sa ancora poco riguardo all’impatto che la medesima avrà nel lungo termine sulla crescita e sul mercato del lavoro; i costi bassi, l’efficienza, la comodità, la mancanza di intermediari e la maggiore flessibilità rendono la sharing economy molto attraente ma tutto questo può anche significare salari più bassi e minori protezioni; infine, la sharing economy è un concetto non ancora completamente analizzato dal punto di vista delle norme legali e comportamentali da applicare.

Econopoly, Novembre 2015