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Marco Buti
Riflessioni di un practitioner europeo sul paradigma economico dopo la crisi
Assemblea dei soci dell’Associazione Villa Favard
Firenze, 5 maggio 2018
Buonasera a tutti. Vorrei innanzitutto ringraziare il Presidente Giunta, Giampiero Gallo e l’Associazione Villa Favard per l’invito a partecipare a quest’evento, e sicuramente Alessandro Petretto per le sue (affettuose) parole d’introduzione. Non posso nascondere che è con una certa emozione che ho accettato questo invito, a parlare qui della mia esperienza tra i laureati della mia Facoltà.
L’idea è di condividere con voi alcune riflessioni sull’evoluzione nel corso degli anni (e soprattutto dopo la crisi) del paradigma economico dominante: a partire dal lavoro fatto per la mia tesi di laurea, quando ero laureando (a Via Curtatone) fino alle mie più recenti esperienze da practitioner europeo come Direttore generale degli affari economici e finanziari della Commissione europea a Bruxelles.
Partiamo dunque dalla mia tesi di laurea che porta sull’efficacia della politica di bilancio. Sono gli anni 1980 – 81. Vale a dire, siamo negli anni immediatamente successivi al secondo shock petrolifero. In Italia, sono gli anni successivi al Piano Pandolfi (con cui ho collaborato poi a Bruxelles quando è stato nominato Commissario europeo) e del “divorzio” fra la Banca d’Italia e il Tesoro.
Dopo il primo shock petrolifero, la crescita rallenta significativamente: dal 7% del ’73 e si attesta su una media del 4% ma in ulteriore declino. Al tempo stesso, l’inflazione galoppa ormai a due cifre e con una media superiore al 16% nel periodo 73-79. Dinamiche analoghe si osservano in quella che ere l’Unione dell’epoca, ancora chiamata il Mercato Comune.
In Europa, si fanno le prime esperienze di cooperazione monetaria con lo SME, promosso da Tommaso Padoa-Schioppa, nominato proprio quegli anni Direttore generale alla Commissione, nel posto che occupo attualmente.
Il problema della stagflazione è dibattuto dagli economisti: la teoria keynesiana ha difficoltà a razionalizzare shock dal lato dell’offerta che deprimono l’output e fanno aumentare l’inflazione.
Come negli anni ’30 dopo la grande recessione, c’è un ripensamento fondamentale del paradigma economico dominante, che va di pari passo con gli sviluppi politici a livello internazionale.
Negli anni ’30 lo shift nel paradigma dominante si ebbe con la rivoluzione keynesiana e il New Deal di Roosevelt. Alla fine degli anni ’70, è la controrivoluzione monetarista e la Nuova Macroeconomia Classica con la scuola delle Aspettative Razionali a determinare una nuova svolta.
A fare da apripista è il concetto di tasso naturale di disoccupazione, sviluppato da Friedman e Phelps.
La teoria – o vulgata – keynesiana sosteneva che si potesse scegliere un punto sulla curva di Phillips che dà il trade-off fra tasso di disoccupazione e tasso d’inflazione. In sostanza, i governi liberal, in senso anglosassone, avrebbero tendenza a scegliere un equilibrio con basso tasso di disoccupazione al prezzo di una più alta inflazione. I governi conservatori, il contrario.
Friedman (nel suo celebre discorso per la consegna del Nobel nel 1976) dimostra che, in presenza di un tasso naturale di disoccupazione dettato dalle forze dell’offerta (output potenziale, produttività, efficienza nell’utilizzo dei fattori di produzione), la curva di Phillips non è stabile. In altri termini, ridurre il tasso di disoccupazione al di sotto del suo livello naturale attraverso politiche macroeconomiche richiederà un’inflazione non solo alta, ma anche crescente.
Questo mette in discussione le politiche keynesiane di supporto della domanda e riflette lo spirito (il mainstream thinking) di quegli anni.
I governi di Reagan negli Stati Uniti e di Mrs Thatcher nel Regno Unito e le rispettive politiche economiche riflettono questa nuova visione: non sono schiavi inconsapevoli di qualche economista defunto – come ricordava Keynes – ma di economisti ben viventi!
A livello teorico, come argomento nella mia tesi, il dibattito si sposta dalla disputa sulla stima dei parametri in modelli sostanzialmente keynesiani verso una nuova visione teorica, che la scuola delle aspettative razionali di Lucas e Sargent porta al suo compimento. In econometria, si passa dai grandi modelli strutturati ai modelli a forma ridotta,
Non si tratta più di stimare l’inclinazione della curva IS o LM per valutare l’efficacia della politica monetaria e della politica fiscale, come nella sintesi neoclassica di Sir John Hicks (che ho poi incontrato a Oxford: sua moglie Lady Ursula fu mio tutor morale al Linacre College).
Le aspettative razionali implicano che sia la politica monetaria che la politica fiscale non siano efficaci già nel breve periodo. Ed è questo che documento nella mia tesi di laurea.
Cosa ne consegue come guida della politica economica?
La mia tesi, sia pure in modo parziale, cattura questo shift fondamentale nella macroeconomia:
Il riorientamento delle politiche economiche si vede nelle variabili macroeconomiche: l’inflazione comincia a scendere anche significativamente a seguito di politiche monetarie restrittive, per arrivare alla fine degli anni ’80, sia in Italia che in Europa, a livelli intorno il 5%; al tempo stesso, deficit pubblici e tassi d’interesse elevati spingono il debito pubblico che cresce ovunque, ed in particolare in Italia dove raggiunge il 90% del PIL.
Questa evoluzione ha influenzato anche la formulazione delle politiche economiche e l’evoluzione istituzionale nell’UE.
Il Mercato unico (Libro bianco, 1985, Rapporto Cecchini, 1988) si pone l’obiettivo di unificare i mercati dei beni entro il 1992. Il dinamismo messo in moto dal “progetto 1992”, insieme al contro shock petrolifero del 1986, contribuisce a tassi di crescita elevati, dopo il periodo di eurosclerosi della seconda metà degli anni ’70 e della prima metà degli anni ‘80, con una crescita che si attesta infine attorno al 3%.
Il Trattato di Maastricht del 1992-93, che trova supporto analitico nel Rapporto Padoa Schioppa (1986) e nello studio “One Market One Money” del 1990, al quale ho collaborato come giovane funzionario comunitario, delinea il percorso verso l’UEM: l’introduzione della moneta unica nel 1999 diventa un obiettivo politico vincolante, di fatto la priorita’ della politica economica, per molti dei Paesi europei. Prova ne è la convergenza nominale raggiunta in quegli anni, con differenziali di inflazione tra i Paesi dell’UEM che si riducono tra il 2% e il 3%, e (di pari passo con diminuiti rischi dei tassi di cambio), una sempre minore dispersione dei tassi d’interesse nominale che si riducono tra il 4% e il 5%. Al tempo stesso, le finanze pubbliche registrano un miglioramento con la riduzione dei deficit, e una certa stabilizzazione del debito pubblico, anche se a livelli molto alti nel caso dell’Italia.
La crescita relativamente robusta nei primi dici anni dell’UEM è bruscamente interrotta dalla crisi del 2008. Nata negli Stati Uniti, la crisi ha effetti devastanti nell’UE, soprattutto nella zona dell’euro.
Perché? Sostanzialmente perché l’UEM – globalmente e in ognuno dei suoi membri – è rimasta in mezzo al guado: la convergenza dei tassi d’interesse, e la riduzione automatica dei deficit pubblici che ne è la conseguenza, ha prodotto una sorta di “anestesia” che ha impedito le riforme strutturali a livello nazionale e il completamento dei cantieri dell’UEM a livello europeo.
Ma ancora più rilevante è stata la divergenza sottostante, in termini di preferenze economiche e sociali nei Paesi membri dell’UEM: la Germania, grazie alla diversificazione delle catene produttive verso l’Est e al deprezzamento del suo tasso di cambio reale, è diventata più specializzata in beni tradeable; i paesi periferici, al contrario, hanno puntato maggiormente sui servizi (non tradeable), grazie alla riduzione dei tassi d’interesse e al boom del mercato immobiliare. La “ossessione“ della competitività nei paesi del nord e l’avversione alle riforme nei paesi del sud ne sono state le conseguenze.
Questi sviluppi hanno consolidato le divisioni storiche che hanno radici profonde nell’immaginario collettivo: l’iperinflazione nella Repubblica di Weimar in Germania, la disoccupazione di massa in Francia e Italia durante la Grande Depressione (Brunnermeier et al. 2016).
In altri termini, la condivisione della sovranità monetaria, in assenza di condivisione di altre sovranità, ha condotto alla divergenza delle economie della zona dell’euro. La teoria delle aree valutarie ottimali endogene non si è realizzata.
La Grande Recessione condurrà ad un nuovo paradigma economico? Presto per dirlo. Non si vede all’orizzonte un nuovo Keynes. Ma le tessere di un nuovo puzzle iniziamo a vederle:
Quali saranno le coordinate di una nuova sintesi?
A chi tocca adesso?
Vi ringrazio per l’attenzione e ancora per l’invito a questa cerimonia, per me carica di significato.
Grazie.